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"Lo dirò la prossima volta"

  • Caterina Paolucci
  • 18 nov 2016
  • Tempo di lettura: 3 min

Tendo a vestirmi con colori tenui. Sempre gli stessi. Oppure di nero. Essere come un piccolo fantasma svolazzante, essere invisibile, confondermi con le pareti e coi divani e passare inosservata. Oggi cerco di farmi minuscola, di osservare, di non far rumore. Non perché non voglia essere presente, ma quasi per lasciare più spazio, più spazio agli altri, più spazio al mondo, per non rovinare il bianco, per esserci senza togliere luce. Per portare un po' di leggerezza.

“Non vorrei mai offendere nessuno, ma sono così stupidamente timida che spesso sembro fredda e indifferente, quando invece sono solo trattenuta dalla mia naturale goffaggine.” Così scriveva Jane Austen nel suo romanzo Ragione e sentimento più di due secoli fa. La timidezza non si può descriver così facilmente… è uno scudo di marmo? Una barriera protettiva? Una fragile campana di vetro? Non lo so, ma so che è una gran fatica abbatterla, essere più forti di lei, munirsi di guantoni ed energia sufficiente per graffiarla con le unghie senza pietà. All'asilo ero quella che osservava tutti e tutto, quando le dade non trovavano più un bambino, io ero l'unica che sapeva sempre esattamente dove fosse, senza aver parlato con nessuno.

Non mi fido facilmente, non parlo a sproposito, non intervengo nei dibattiti a meno che non sia necessario, non sono la prima ad alzare la mano anche se conosco la risposta, resto in silenzio ad ascoltare, ad osservare, a riflettere. Da bambini la timidezza è un'etichetta passeggera: la massa ne sorride, è un'abitudine fastidiosa che col tempo passerà, non sa come ci si sente. Sì, con il tempo ho imparato a gestire la timidezza, a conviverci, ma quel gozzo in gola rimane lì, sospeso, tra la lingua che freme per muoversi e la saliva, scattante, pronta, avvezza a mandar giù. Che si tratti di una semplice battuta con gli amici, una confidenza con i genitori o una riflessione detta in classe, poco importa, la timidezza resta tale e frena le parole. Si rimane senza fiato, il cuore inizia a battere nel petto più rapidamente, le mani tremano, gli occhi si fanno più vivi… finché il momento passa. Parla qualcun altro, si cambia argomento. “Lo dirò la prossima volta.” E così via.

I timidi vivono in un loro mondo. A volte succede di non sapere bene cosa rispondere, di non avere i riflessi pronti, di essere colti di sorpresa e di rattristarsi all'improvviso. Quando accade, non dico nulla; rendo un silenzio ad una domanda difficile. La timidezza è come una giornata di sole. Il sole è troppo forte, troppo bianco, impedisce di guardare di fronte a sé: percorro la strada un po' a memoria, gli occhi che non riescono a contenere tanta luce, il vento che muove appena le punte dei capelli. Cerco sul volto degli altri la reazione a tanta luce, ho osservato a lungo i minimi segnali, i battiti di ciglia, il senso di vertigine, la ricerca di una via d'uscita, di salvezza, come se tutto fosse troppo per me.

I timidi si riconoscono tra loro: c'è chi riesce a camuffarsi meglio di altri, chi si mimetizza come un camaleonte dietro a maschere di marzapane, c'è chi non proferisce mai parola, chi si munisce della sapienza per raggiungere un po' di mancata sicurezza. Ma una matrice comune c'è. Non si tratta di paura, non si tratta del giudizio altrui, non si tratta di insicurezza, non è nemmeno codardia. E' una sfida con se stessi, una competizione continua con quel mostro dentro che ci divora. Allora siamo costretti a metterci in gioco, per migliorare sempre, per farci avanti, per vivere.

Ogni tanto indosso il verde, mi piace come colore, mi trasmette speranza, allegria. Il verde non lo indossa quasi mai nessuno, è un colore dimenticato. “Chissà cosa avrà capito”. “Chissà cosa pensa di me”. “Chissà se saprà leggere i miei silenzi”.

A volte vorrei che la gente sapesse leggere attraverso i miei occhi, come io cerco sempre di leggere attraverso i loro.

Caterina Paolucci


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